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VI-VEDO

 Laura Cionci e Giovana Mastromauro

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Come se l’uomo

diventasse cosi fragile da addolcirsi

non solo con l’espressione del dolore

ma anche con la visione della sua vita

nel racconto.

Contributo: Fundo de Investimentos Culturais de Campinas (FICC) - Prefeitura de Campinas - São Paulo

Dopo un lungo processo di elaborazione e di collaborazione tra le due artiste iniziato in Italia nel 2014 e proseguito a distanza fino ad oggi, vede finalmente la luce il progetto "Viú.vos – Vi Vedo". L'iniziativa si prefigge di oltrepassare l’immaginario collettivo, i luoghi comuni e  gli stereotipi, esaminando la perdita del coniuge dal punto di vista maschile.

Vivendo in una società maschilista, l’uomo non ha il diritto di emozionarsi, arrendersi, piangere.

Sono soprattutto gli uomini che hanno amato e amano le loro compagne a trovarsi in una condizione di difficoltà. In questo progetto si tenta, attraverso i racconti dei soggetti, di scoprire quel lato emotivo dell’uomo celato dalla sua quotidianità. I vedovi coinvolti nel progetto sono stati portati a riflettere sulla loro condizione, a ricordare il passato e ad analizzare la loro situazione attuale.

Il processo lavorativo è durato 5 anni e ha portato le artiste a riflettere anche sul contesto di questi stati d’essere nella società che cambia. Una visione brasiliana ed una italiana, non solo intima ma politica, che racconta come gli avvenimenti “esterni” nazionali, mondiali, contribuiscono lentamente a sgretolare la fragilità umana e spingono verso lo scollamento dell’uomo dalla sua radice, la terra.

VIDEO 

FOTOGRAFIA

INSTALLAZIONE

Non essere fragile

di Leonardo Caffo

 

 

 

Maschi che non possono essere fragili, che devono essere forti. Sono gli anni ’60 e Pier Paolo Pasolini dice che la società che cambia senza capire che l’elité è cambiata, che il futuro è concedere spazi di autogestione, semplicemente è destinata a fallire e ai ritorni delle destre. Il punto, forse, è capire cosa intendiamo per autogestione. Un ragazzo intervistato in una televisione italiana nazionale spiega perché[1] il sabato e la domenica per lui sono il momento in cui distinguersi, le scelte di esagerare in discoteca, quelle di emergere dalla posizione che dal lunedì al venerdì lo costringe al servizio dei signorotti. È così che i social network, sabati sera perenni, hanno cambiato le regole della politica, ribaltato i potenti di prima, riportato alla luce ciò che sempre accade quanto si lavora al mito delle società trasparenti: torna il fascismo, torna il passato.

 

L’elité, oggi, siamo noi, siete voi: individui che pensano di essere liberi nello spazio dilatato del digitale, ancora a lavoro dai signorotti in silenzio urlano dagli schermi di un cellulare: non piangono, non ridono, ma dicono di piangere e di ridere. L’emozione, letteralmente, è congelata.

 

“A cosa stai pensando?”, ci chiede Facebook ormai da quindici anni: e allora puoi non pensare più, ora puoi dire solo a cosa pensavi. Che ne è della fragilità e della sofferenza quando condividere significa soltanto condividere i successi? Devi fare vedere solo ciò che hai vinto, mai ciò che ti ha vinto: il dramma che Pasolini aveva capito, e non lo abbiamo ascoltato, è appunto che i giovani non sono abbastanza forti da meritare la libertà e i vecchi, vedovi di qualcosa come chiunque abbia avuto il destino di sopravvivere alla gioventù, non sono abbastanza deboli da meritare il dolore.

 

Così la diversità si livella, e muore; è l’identità che torna prepotente, e come valore, come disgrazia. Nel momento in cui il sabato sera è perenne, e la rivoluzione del ragazzo intervistato in televisione è bloccata dalla falsa idea che un click sul telefono possa sostituire una piazza feroce, allora si sviluppa l’immenso lunedì: uomini forti al comando dell’occidente diffondono il mito della purezza della forza: non si piange, non si soffre, non si urla.

 

Chi scopre una sua fragilità, ovviamente, a questo punto va punito: il femminile diventa il soggettile, il maschio è condannato alla ripetizione - forti e mediocri, invincibili e dunque inutili.

 

L’elité dunque non è più la borghesia, diceva Pasolini, ma la classe operaia, quella che oggi improvvisa ha avuto il diritto di parola sul web dopo decenni di punto di vista imposto: non meritavano la libertà, aveva ragione Pasolini, perché con il loro voto si sono condannati alla guerra. Bisogna essere pronti a soffrire prima di pensare di essere pronti a essere liberi. Vedovi della vita, prima che delle vite.

 

Ma cosa sarebbe successo, questo è il punto, se Facebook avesse chiesto non a cosa stiamo pensando ma, più timidamente, “Per cosa stai soffrendo?”. Una vita che soffre, una vita fragile, è l’unica vita davvero libera.

 

Eccola l’autogestione che cercava Pasolini: addestrati al dolore soggettivo, prima che al piacere universale.

 

[1] https://www.youtube.com/watch?v=WJovuNJADRY

Viùvos – Vi Vedo

di Christian Caliandro

 

 

Con Laura Cionci ci siamo spesso trovati a parlare da quando ci conosciamo del femminile, del principio femminino e del matriarcato. La trasformazione verso il femminile che stiamo vivendo, contro ogni apparenza, non è affatto un conflitto (il conflitto e lo scontro sono prerogative maschili): è, piuttosto, uno scivolamento; la creazione di un piano diverso di esistenza.

Il modo per esempio che hanno le donne di costruire, mantenere, proteggere. La decisione, la risolutezza per esempio che noi uomini non abbiamo – e non abbiamo mai avuto. La capacità anche di escludere ciò che è fondamentalmente inutile e dannoso. Questo momento storico è definito di fatto, molto più di altri, dal confronto tra principio femminile e principio maschile (laddove il secondo emerge in maniera più aggressiva, l’azione sotterranea del primo è più profonda). E ciò emerge in maniera delicata e toccante anche dalle frasi, dai ricordi, dai discorsi dei vedovi – dal loro rapporto, che non finisce, che prosegue oltre la morte, con le compagne.

Se provassimo quindi a definire le caratteristiche femminili (che non riguardano semplicemente il genere, ma la struttura del pensiero e dello spazio di vita) rispetto a quelle maschili, potrebbe intanto venire fuori qualcosa del genere:

Tessere – cucire – imbastire – costruire – conservare – preservare VS. confliggere – combattere – scontrarsi – schiacciare – dominare – sopraffare.

Sdefinizione – immersione – nascondimento – fusione – empatia – connessione VS. definizione – emersione – apparenza – contrapposizione – alienazione – dissociazione.

Conservare – cullare – abbracciare – amare - proteggere – sostenere VS. rompere – strappare – separare – dividere – abbandonare – perdere.

***

L’altro aspetto che qualifica la dimensione contemporanea è che questa è un’epoca di terrori – ma anche di magìe. Per scoprire – e praticare – le magie occorre affrontare la paura dell’ignoto, volersi abbandonare all’imprevisto e accettare tutto quello che ti capita; capire nel profondo che tutto quello che ti capita – ogni singolo frammento – è la tua esistenza.

Questo è ciò che Laura Cionci prova a dimostrare con la sua opera, con ogni suo lavoro. Un tipo di esperienza diversa. Ci sono i confini, i margini, le barriere – e poi, d’improvviso, crollano, si dissolvono, non ci sono più. Questo ‘contatto’ con l’esterno, con l’altro, è di certo anche spaventoso e traumatico perché sempre discute il sé; allora a dissolversi non è solo il confine e il margine, ma io: eppure, questa consapevolezza e questa pratica sono necessarie proprio al fine di creare l’altro piano sul quale esistere. Come scrive Anaïs Nin: “Il territorio di una donna è quello che giace inviolato dal desiderio diretto dell’uomo. L’uomo attacca il centro vitale. La donna riempie la circonferenza” (in Diario I, Bompiani 2016, p. 252).

 

 

ViVedo, esseri fragili.

di Azzurra Muzzonigro

 

Fragilità

 

Vi è mai capitato di perdere quanto di più caro avevate al mondo? Per ciascuno può essere qualcosa o qualcuno di diverso: la donna amata, la mamma, il cane, la casa, il lavoro, ma anche la stima, la fiducia, l’ottimismo. Non importa chi o cosa, né la ragione della perdita, quello che mi interessa ora è che vi concentriate sulla sensazione che quella mancanza comporta sulle vostre esistenze.

Improvvisamente la fortezza di certezze nella quale vi eravate asserragliati si sgretola, la torre dalla quale giudicavate le altrui debolezze umane si fa sempre più sottile, instabile, insicura. Un tempo forti e spavaldi, vi scoprite ora nudi e fragili, vite solitarie e senza voce appese ad un filo sospeso nel vuoto dell’esistenza.

 

 

Margine

 

Sebbene ad alcuni possa sembrare una prospettiva distante o remota, forse non lo è poi così tanto: proviamo a metterci per un istante nei panni di un essere umano del futuro, neanche tanto lontano, diciamo 50 anni da oggi, maschio occidentale di classe media, il cui lavoro non fosse più necessario perché sostituito ad esempio dall’intelligenza artificiale.

Improvvisamente anche chi è forte oggi potrebbe scoprirsi debole domani, per ragioni che può solo parzialmente controllare. D’un tratto potremmo scoprirci tutti parte di una specie fragile, marginale e un giorno chissà perfino irrilevante.

E allora forse quel margine al quale chi non ha voce è costretto può rivelarsi un terreno fertile per dar forma a nuovi modelli di vita. Modelli basati sull’umiltà, a partire dalla consapevolezza dei propri limiti, sull’empatia, sentendo le ingiustizie sulla propria pelle, sull’interconnessione, scoprendosi parte di  un’esistenza plurale.

 

 

Cura

 

Forse la chiave sta proprio qui: nel sentirsi parte di un mondo che è comune. Non siamo monadi isolate chiuse e autoreferenziali, ma entità plurali e relazionali in continuo divenire. Riconoscerci parte di ciò che è vivente ci consente di riconoscere forme di interdipendenza con le altre forme di vita. Dobbiamo superare la nostra individualità e ‘diventare ambiente’: fare spazio e dare voce ciò che ci unisce piuttosto che a ciò che ci divide. Dobbiamo evadere dal frammento di cui siamo prigionieri e iniziare a costruire ponti, perché come ci insegnano le donne: se ci salveremo lo faremo insieme. E’ finito il tempo degli eroi solitari, invincibili ed eterni: siamo esseri fragili e in questa fragilità alberga la nostra cura e la nostra salvezza.

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Quanto ho visto qui

di Marcelo Beso

 

Parlare su Viúvos – Vi Vedo di Giovana Mastromauro e Laura Cionci nel contesto culturale definito da Giulio Ferroni come “evaporazione di una cultura critica” implica che dobbiamo ricorrere alla sensibilità dei grandi che ci hanno preceduto, specialmente quelli che sanno che “tutta l’arte seria è un atto critico” (cf. George Steiner), come è stato il caso di Rainer Maria Rilke, per il quale “l’opera d’arte è buona quando è nata da una necessità”.

Questo lavoro nasce da un’idea originale dell’artista brasiliana Giovana Mastromauro che nel 2013 ha raccolto testimonianze della sua unica nonna, vedova, per conoscere un po’ di più il nonno che non aveva conosciuto. E questo carattere di un bisogno spontaneo e fortuito – ascoltare la storia delle vite dei suoi nonni – era già apparso nei suoi primi lavori sulla memoria e il ricordo, come nei video-poesie (Vita Muta, Voce) o nel documentario Banzo, di 2013 (in collaborazione con Natasha Marzliak), in cui ha indagato i sentimenti d’amore basati sul dolore della mancanza (“banzo” è il dolore della separazione tra neri africani asserviti in Brasile).

Durante un viaggio a Roma nel 2014, Giovana incontra l’artista italiana Laura Cionci e insieme iniziano a dare vita a Viúvos – Vi Vedo con un dettaglio fondamentale: affrontare la vedovanza solo attraverso storie dei maschi. Sensibilmente coinvolti nelle loro creazioni davanti alle testimonianze dei vedovi  le artiste hanno permesso alle passioni improvvise e agli incontri eterni di entrare in risonanza con la libertà, prevenendo l’amore e i suoi misteri di confondersi con l’irragionevolezze delle coppie o le loro richieste razionali in società. Questa coscienza universale della sensibilità umana, superiore alla militanza fronte alla realtà e le sue ingiustizie (individuale o collettive) è un risultato inaspettato in questo lavoro, quando ci rendiamo conto che trionfi il sentimento amoroso qui dove ci sarebbero solo sentimenti pesanti, perduti, silenziosi / silenziati.

Certamente critica, questa visione della vedovanza maschile serve di partenza per il proprio apprezzamento delle donne dove, per l’appunto, sembra che non siano più, dove sembra che ci sia rimasto soltanto il vuoto e l’assenza – come quando si confronta il “ruolo” della donna con quello del maschio in una società patriarcale (ben nota in tutta la cultura occidentale del’“Uomo” civilizzato). Ridefinindo il proprio soggetto indagato, Viúvos – Vi Vedo risulta nella rivitalizzazione civile e “ecologica” (ancora nei termini di Ferroni) che manca molto ai luoghi comuni dell’arte contemporanea. Non a caso, questo lavoro viene svolto attraverso anni di sperimentazione e maturazione, tra interviste selezionate e materiali raccolti improvvisamente. Tra l’altro, solo così si può raggiungere discorsi o rappresentazioni di una relazione d’amore, in particolare degli altri, senza essere solo sentimentale o semplicemente obiettivo: reinventare l’attivismo utilizzando la spontaneità, redimensionare l’affetto e farlo un rispetto inalienabile. Questa è la base per l’espressione di un’esperienza personale sorprendente come quella dei vedovi. È come se la vedovanza emergesse come un rischio intrinseco dell’amore e portasse la certezza, d’altra parte, che non ci sarà mai separazione. Se è così, è un grande risultato oggigiorno, in cui arrivano le separazioni e gli amori se ne vanno.

Soluzione poetica e profonda per qualsiasi società moderna che, sessista e pregiudiziosa, perde il meraviglioso dando via alla materialità e all’utilità a tutti i costi, sfilando decadimento, Viúvos – Vi Vedo consente allo spettatore di immergersi nella sua essenza, perché chi sente il dolore o la gioia e si commuove di fronte alle testimonianze lo fà come un essere umano, non come un uomo o una donna, lo fa per l’umanità, per la sensibilità – in breve, per l’amore. Questa è la chiave drammatica qui offerta, illustrata anche da un altro grande poeta, William Blake: “L’eccesso di risate piange, l’eccesso di grido ride”. Le artiste non evitano le contraddizioni della realtà, i pericoli della vita. Sono andate dagli uomini, hanno dato alla luce Vedovi e, vedendoli come umani – Vi Vedo! – non come i maschi che sono o che erano, sentendoli attraverso la forza e la debolezza dei loro amori che erano (e sono rimasti!), hanno permesso la comprensione e la guarigione, almeno per quelli in grado di svegliarsi per amare l’altro essendo pienamente se stessi. Questa, tuttavia, è l’opinione di un uomo che ama incondizionatamente una donna...

In ogni caso, grazie Laura e Giovana, madri della nostra sensibilità a venire.

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